Il coraggio della radicalità e la vicenda ILVA

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Ci sono vicende che mi tormentano, mi tolgono il sonno, mi interrogano nel profondo. E, come me, tantissime altre persone che da queste vicende vengono, direttamente o indirettamente, colpiti.

Si tratta di vicende dolorose e sempre più spesso tragiche. Ma si tratta di vicende che proprio per questo devono essere affrontate, assumendosi tutti i rischi che prendere posizione comporta, in questioni così drammatiche e divisive.

Una di queste è la vicenda dell’ILVA di Taranto.

Una vicenda che interroga tutti, tarantini e non. Perché, per esempio, io vivo a Lecce, in una provincia che ha fatto registrare dati sull’incidenza di tumori addirittura superiori rispetto alla provincia di Taranto. Dati che, va detto, non sono ascrivibili esclusivamente all’inquinamento prodotto dall’ILVA, ma ai quali concorrono una serie di altri fattori di rischio. Primi fra tutti l’attività della Centrale Enel Federico II di Cerano (Brindisi) e la cospicua presenza di discariche abusive di rifiuti tossici, emersa dall’inchiesta sulla Terra dei Fuochi nelle dichiarazioni dell’ex-boss Schiavone, e su cui ha deciso di aprire un’inchiesta anche la Procura di Lecce, in seguito alle denunce del M5S e dei comitati civici che si oppongono al raddoppio della SS 275 Maglie-Leuca.

Io penso però che la vicenda ILVA sia la madre di tutte le vicende, quella che le riassume meglio, con tutto ciò che comporta rispetto al rapporto tra salute, vita umana e modelli di produzione e di sviluppo.

Ne scrivo oggi perché anche l’altra sera, nel corso dell’iniziativa di lancio del percorso de L’Altra Puglia in vista delle elezioni regionali, ho ascoltato un paio di interventi sull’argomento che mi hanno lasciato quantomeno perplesso.

Nel corso di questi interventi è riecheggiata una frase che nel corso degli anni ho sentito usare da un’innumerevole serie di esponenti politici, di diversi schieramenti politici: “non dobbiamo accettare la contrapposizione tra ambiente e lavoro”. Una frase che su un piano puramente astratto è assolutamente condivisibile, ma proprio per la sua astrattezza, a mio modestissimo parere, non dice assolutamente nulla sul piano concreto.

Ma dirò di più (e sì, scusatemi ma oggi sento un’irrefrenabile bisogno di sfogarmi).

Prima di tutto, penso che la scelta di utilizzare il termine “ambiente” sia già fuorviante. L’ambiente è il mezzo attraverso il quale si propaga la minaccia, ma la ricaduta finale di quella minaccia è sulla vita umana.

Penso, poi, che limitarsi oggi a fare un’affermazione del genere rappresenti, di fatto, un modo per voltarsi dall’altra parte rispetto alla realtà. Magari mi sbaglierò, ma penso che l’intera storia dell’ILVA (prima Italsider) sia una storia di contrapposizione tra diritto alla vita e diritto al lavoro, svoltasi secondo i classici schemi del ricatto occupazionale ma nelle sue declinazioni più drammatiche. Fare oggi un’affermazione del genere vuol dire, per quanto riguarda lo stabilimento di Taranto, essere in ritardo di circa mezzo secolo su quella storia. Ok, all’epoca (primi anni ’60) si sarebbe dovuto aspettare almeno un decennio prima che la preoccupazione rispetto ai temi ambientali cominciasse a svilupparsi. E d’altronde all’epoca non erano ancora ben conosciuti gli effetti sulla salute delle sostanze nocive riconducibili a quel tipo di produzione. Oggi però non è più così. Oggi sappiamo che di ILVA si muore, e non da oggi (la versione integrale del rapporto S.E.N.T.I.E.R.I. curato dall’Istituto Superiore di Sanità è disponibile a questo indirizzo).

E allora che senso ha oggi dire “non dobbiamo accettare la contrapposizione tra ambiente e lavoro”? Lo abbiamo già fatto e continuiamo a farlo da cinquant’anni a questa parte.

In un altro intervento, invece, ho ascoltato una proposta che trovo assolutamente più sensata sul piano pratico: “dobbiamo pretendere che vengano rispettate tutte le prescrizioni indicate dal Gip Todisco”. Ok, sono perfettamente d’accordo. Dopodiché penso che se si vuole restituire credibilità alla politica sia necessario gettare lo sguardo al di là dell’immediato e cercare di prevedere scenari futuri. Cosa succede se quelle prescrizioni continuano ad essere ignorate?

Sappiamo che quello stabilimento non ha mai rispettato le leggi, tanto da costringere il legislatore ad inseguirlo nel tentativo di cucirgli le norme addosso. Sappiamo che rispettare quelle prescrizioni ha un costo che l’ILVA non si può permettere, essendo ormai stata avviata la procedura fallimentare. Sappiamo che l’amministrazione controllata, nata con il compito di risanare l’azienda e metterla sul mercato, non è stata dotata di risorse necessarie per compiere l’impresa. Sappiamo che la stessa collocazione sul mercato sarebbe allo stato attuale alquanto difficoltosa, tanto per la situazione del mercato mondiale dell’acciaio quanto per le caratteristiche e le condizioni dell’impianto tarantino. E allora, che fare? (perché i tempi cambiano ma certe domande restano).

Sono perfettamente consapevole dell’enormità e drammaticità del problema, ma se quel dannato 1% è stato capace di soggiogare il 99 è proprio perché si è rivelato capace di affrontare problemi di quelle dimensioni, mentre la politica non ha saputo (o non ha voluto) affrontarli.

Di solito, la fatidica frase (“non dobbiamo accettare la contrapposizione tra ambiente e lavoro”) porta sempre con sé un corollario: “non c’è alternativa al mantenimento in funzione dello stabilimento, senza l’ILVA Taranto non ha speranza”. Ora, quel “non c’è alternativa” è lo stesso non-argomento che ha scandito l’imposizione di tutte le misure di austerity da parte dei vari governi che si sono succeduti e da parte dell’Unione Europea. E questo, già di per sé, lo avvolge in un alone di sospetto. Se poi viene formulato in un consesso che rivendica proprio il ruolo di alternativa, o meglio di alterità, allora risulta particolarmente stonata.

Nella fattispecie, oltretutto, l’alternativa c’è ed è ben nota. Avete mai sentito parlare di Pittsburgh? Fino a qualche anno fa era la capitale mondiale dell’acciaio, si moriva di tumore a ritmi spropositati ed era bagnata da tre fiumi che erano stati ribattezzati “i fiumi neri”. Oggi non produce più un grammo di acciaio, i cittadini sono tornati a godere di ottima salute e in quei fiumi si è tornati a pescare. E nonostante questo Pittsburgh è stata capace di tornare a livelli di occupazione che la “monocoltura” dell’acciaio le aveva fatto perdere già a partire dagli anni ’80.

E la grande riconversione di Pittsburgh non è stata neanche un caso isolato nel panorama mondiale ed in Europa. La famosissima Ruhr, Bilbao, Metz sono solo alcuni degli esempi più vicini a noi. Ma questi altri esempi, queste altre alternative, hanno una caratteristica che le rende per noi ancora più significative rispetto al fantastico esempio di Pittsburgh. Queste felici riconversioni sono state effettuate con fondi europei cui si potrebbe fare ricorso anche nel caso di Taranto. E c’è anche chi ha provato ad elaborare un piano per il loro utilizzo.

Certo, un piano di riserva, ma si sa…mai senza un piano B!

In conclusione, mi piacerebbe poter rivolgere una domanda a tutti coloro che in questi anni hanno pronunciato la fatidica frase. Qual è, se c’è, il vostro trade-off rispetto alla questione ILVA? In altre parole (perché se no gli amici poi mi sgridano), esiste per voi una soglia di accettabilità, rispetto alla salute delle persone ed alla vita umana, passata la quale diventa insostenibile ogni sforzo, pur sacrosanto, di salvaguardare i posti di lavoro ILVA?

Nella già citata ordinanza del 27 luglio 2012, il Gip di Taranto Patrizia Todisco mette nero su bianco anche un altro concetto, nel passaggio in cui parla della “doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana”. Già, la nostra cara, vecchia, amata Costituzione aveva già previsto tutto. Ed aveva affrontato questo tipo di problemi in maniera molto chiara…e radicale.

L’altra sera l’europarlamentare del GUE (sinistra europea) Eleonora Forenza invocava giustamente il coraggio di essere radicali. Quello che mi chiedo è dove riporre questo coraggio di cui possiamo disporre se non in questioni cruciali come quella di Taranto e, più in generale, nella radicale riconversione dei modelli di sviluppo e di produzione?

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